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MineralMovies [ep.5]: Analisi di First Man (2018) di Damien Chazelle

Analisi di First Man (2018) di Damien Chazelle

Non so cosa scoprirà l’esplorazione spaziale, ma non penso che sarà un’esplorazione solo per il gusto di esplorare. Io penso che ci permetterà di vedere cose che forse avremmo dovuto vedere molto tempo fa, ma che semplicemente non siamo riusciti a vedere fino ad ora.

Così Neil Armstrong giustifica l’enorme sforzo collettivo che comporta la corsa allo spazio.
Una sorta di imbuto convoglia dalla dimensione macro alla dimensione micro i sacrifici di un’intera nazione: dalle centinaia di milioni di contribuenti senza volto che vedranno molte delle loro esigenze socioeconomiche messe da parte, si scende alle migliaia di profili professionali direttamente coinvolti nella progettazione e costruzione degli infiniti componenti tecnologici necessari, per poi arrivare alle sparute decine di teorici dell’impresa che hanno effettivamente a disposizione la visione completa dell’operazione, per arrivare infine a tre singoli esseri umani che per la prima volta nella Storia dovranno abbandonare l’orbita terrestre.
La pellicola di Chazelle si concentra su quest’ultimo passaggio, nell’impossibile sforzo di far percepire allo spettatore come un normale essere umano suo simile possa abbracciare una simile responsabilità, senza esserne travolto. Conoscere già il buon esito della sua impresa non toglie una goccia di tensione, anzi ha l’effetto di focalizzare ancora di più l’attenzione sul capire che cosa abbia Neil in più delle altre persone, cercando ansiosamente segni della sua beatitudine nelle vicende personali precedenti. Più il film mostra di Neil, più si fa strada l’idea che forse non avesse qualcosa in più, ma qualcosa in meno.
Ryan Gosling è il perfetto interprete per la parte non perché assomigli al vero Neil Armstrong, ma perché il suo volto inscalfibile e la sua espressione neutra sbattono sulle aspettative di chi lo circonda, facendolo sembrare un androide che ha sotterrato la sua umanità sotto una coltre di gelida efficienza. Nessuno dei personaggi riesce a vedere il nucleo di pura ossessione che lo muove, non i supervisori che anzi lo tacciano di essere troppo avulso dal resto tanto da sembrare distratto, nemmeno la moglie Janet che confessa di averlo sposato proprio perché sembrava l’uomo più stabile e normale possibile. Solo lo spettatore può intuire che quel primo volo sopra l’atmosfera terrestre, quel letteralmente nuovo punto di vista ha innescato qualcosa in Neil che non gli lascerà tregua fino al successo o alla morte.
Il tema dei tre film principali di Chazelle è sempre l’ossessione: quella che fa passare sopra alla propria salute e alla propria dignità in Whiplash, quella che fa uscire dall’età delle illusioni e calpestare l’amore in La La Land e infine quella che ti porta a essere per una coincidenza di fattori esterni imponderabili l’essere umano che deciderà l’esito del progetto scientifico più folle mai ideato.

L’ossessione non è una dannazione, o un potere speciale dell’umanità in grado di trascinarla oltre gli ostacoli: è una semplice forza matematica dell’universo come la gravità che spinge o allontana i corpi, senza che abbiano una reale voce in capitolo. I protagonisti delle pellicole di Chazelle non hanno mai il minimo dubbio, sanno che sarebbero molto più felici e appagati se semplicemente lasciassero andare quei sogni, ma non possono fisicamente spostarsi dalla strada che percepiscono come il loro destino.
Questo tipo di analisi chiaramente toglie calore al tipico racconto dell’eroe americano, e non è un caso che il film non sia entrato nel cuore del suo pubblico di riferimento: non solo per l’omissione di certi feticci patriottici come la colonialistica bandiera piantata sul suolo lunare, ma perché questo Neil non è uno di loro, non è un modello replicabile a cui ispirarsi.
La particolare attenzione che il film dedica alla vicenda più personale di Armstrong, quella figlia persa così presto da non entrare mai davvero nella costruzione della sua leggenda, non è tanto uno sforzo di rendere il protagonista più umano ed empatizzabile, quanto il primo momento in cui la propria vita interiore si frantuma in compartimenti stagni non comunicanti. Da una parte c’è il Neil padre e marito, ovviamente spaventato a morte dalla responsabilità infinita e dalla prospettiva di fare la fine dei colleghi dell’Apollo 1; dall’altra c’è l’astronauta, una macchina non perfetta ma perfettibile con il solo scopo di viaggiare più lontano possibile dalla superficie terrestre, componente organica del modulo lunare con il dominio totale delle emozioni quanto degli strumenti tecnologici.
L’immensità e la maestosità dello spazio sono quasi completamente negate allo spettatore, continuamente schiacciato dalle pareti metalliche dei veicoli insieme a Neil, costretti a respirare la stessa aria riciclata e a guardare l’universo nero attraverso i minuscoli oblò dei moduli. La comparsa finalmente del nostro satellite è inquietante più che epica, con la sua superficie desolata che scorre invadendo lo schermo a ricordare che là fuori non c’è niente a cui aggrapparsi se non la cieca fede nei calcoli orbitali e nelle attrezzature.
Il culmine del viaggio dell’eroe di Neil è quasi ironicamente una breve procedura aggiuntiva di atterraggio non prevista: un’intera vita di preparazione, il sacrificio della sfera privata, l’eterno slalom tra i problemi tecnici e politici sono stati necessari per portarlo lì a fare la differenza tra successo e fallimento con pochi minuti di maneggiamento di una manopola. Tutto il resto delle operazioni, ben più celebre e celebrato, scivola giù da questo picco di tensione perché ormai Neil non è più solo, è stato esorcizzato dal furore silenzioso che ha abitato in lui per decenni. La storia del primo uomo sulla luna è già diventata mito ed è ora proprietà dell’umanità.

A lui restano due momenti, solo il primo non narrato nel film ma entrambi comunque non immortalati né dalle tremolanti immagini della cinepresa lunare né dalla macchina fotografica, sempre saldamente nelle sue mani e che infatti non lo ritrarranno mai, con buona creanza del suo “cordiale estraneo” Aldrin. Come un bambino goloso, che dopo tanto impegno finalmente trova il barattolo delle caramelle nascosto dai genitori, Neil raccatta frettolosamente alcuni “sassi lunari” e li mette furtivo in saccoccia prima di essere sorpreso, in questo caso, da possibili imprevisti che lo costringessero a interrompere anzitempo la gita lunare. Concentrando in unico sforzo competenza di mineralogista e consapevolezza di astronauta lunare, così come il bambino che in un lampo pesca nel barattolo le caramelle più gustose, Neil raccatta quei sassolini che risulteranno alcuni fra i campioni geologicamente più importanti dell’intero programma Apollo.

L’altro momento, narrato invece nel film, è l’invenzione della scena in cui lascia segretamente andare il braccialetto di una bambina, sua figlia, in un cratere. Un Neil era morto il giorno di quella perdita, un altro Neil è morto sulla Luna e lì rimarrà per sempre.

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